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Dove abita la pazzia? Al Teatro La Perla di Bagnoli
"Dove abita la pazzia?" - una foto di scena

Dove abita la pazzia? Al Teatro La Perla di Bagnoli

(CFN) NAPOLI – Venerdì 21 marzo è….si certo entra la primavera…una data di una certa importanza: nel ’31 nacque Alda Merini. Poetessa e scrittrice, amica di Salvatore Quasimodo, visse una vita travagliata fra famiglia ed ospedali psichiatrici dove fu più volte internata. Ma, come spesso accade, la diversità, la genialità, l’arte viene confusa con una qualche malattia. Ad Alda fu diagnosticata la “sindrome bipolare” peraltro diagnosticata a diversi altri artisti e poeti. Solo dopo la sua scomparsa, avvenuta nel novembre 2009, fu definita la voce poetica  più lucida e delirante del Novecento italiano. Traendo spunto dall’esperienza umana e letteraria di Alda Merini la Compagnia Instabile Teatro Aperto le ha dedicato una rappresentazione teatrale con lo scopo di percorrere tutte le strade che raccontano la pazzia, non come pensiero malato, ma come un cammino solitario e impervio dentro l’anima così come essa stessa tentò di fare nel corso della sua vita. Il testo, scritto e sceneggiato da Angela Cicala, prova ad entrare in punta di piedi  nell’universo impenetrabile ed imperfetto dell’anima e della mente al fine di scoprirne le pieghe più nascoste, per comprenderne le dinamiche, ma anche per rileggere sotto una luce diversa una delle pagine della storia contemporanea dove, in nome della scienza e dell’onnipotenza umana, sono stati commessi soprusi derubricati come pazzia.
Salda Merini scriveva: Sono nata il ventuno a primavera/ma non sapevo che nascere folle/aprire le zolle/potesse scatenar tempesta …”.


E quindi, proprio nel giorno del suo compleanno, al Teatro La Perla di Napoli, andranno in scena Antonio Di Francia, Angela Cicala, Salvatore Di Fraia, Pina Ercolese, Marta Morelli,  Mariateresa Di Fraia, Enza Buono, Alice Monti, Chiara Maresca, Marilena Cicala e Vincenzo Aulitto, metteranno in scena “Dove abita la follia?” con soggetto e sceneggiatura di Angela Cicala, scenografia di Vincenzo Aulitto, scenotecnica di Salvatore Di Fraia, musiche originali di Antonio Di Francia,  coreografie di Daniela Ricci e Alice Monti con Chiara Maresca, mixaggio suoni  e montaggio video di Italo Monti, luci di Giovanni Monti, suggeritrice Carla Ranavolo, regia di Angela Cicala e Salvatore Di Fraia.
Il lavoro teatrale che ha vinto nel 2012 il Primo Premio, sezione Inediti, alla Rassegna teatrale dell’Augusteo di Napoli, quattro menzioni speciali per regia, scenografia, coreografia e per le musiche originali.

Ad Angela Cicala, autrice e regista abbiamo chiesto come è stata realizzata la messa in scena di un lavoro tanto profondo quanto complesso?
A.C. – La messa in scena ha sfruttato ogni risorsa espressiva: la recitazione, la danza contemporanea, le immagini, la musica, il canto, i suoni, i rumori, i silenzi, per poter indagare un terreno pericoloso, ma fecondo e affascinante,  insidioso e candido, assordante e sommesso. Uno spettacolo, quindi, che  sollecita i sensi, li costringe ad interagire, senza pause, senza tregua, seguendo il ritmo di un verso, di un passo, di una sequenza, di una suggestione melodica. Sul palcoscenico due territori: il manicomio, luogo velato, ombroso, separato. Dietro. Poi il mondo dei sani, oppresso da porte chiuse, affollato di pulpiti da cui giudicare e condannare, lo spazio della rivelazione e del grido. Davanti. Il dentro e il fuori  spesso si scontrano, perché comunicano in lingue diverse, sentono differentemente e non sono capaci di ascoltarsi. Al centro ci sono gli uomini e le donne che hanno popolato i dieci anni di manicomio di Alda Merini: la Zeta, Rosa, Cleo, tre giovani internate; Aldo, un musicista della sezione maschile; Pierre, l’amore nato e vissuto dentro e che in questo spettacolo rivive il suo sdoppiamento d’identità come ricoverato e come psichiatra che difende la “cura” della follia. E ci sono anche lo scontro, la voglia di capire, di immaginare un filo da attraversare in equilibrio tra ragione e pazzia. Sullo sfondo una manciata di minuti raccontano, rubando ad arte sequenze tratte dalla grande cinematografia d’autore, prima l’idea della follia come rottura, come soqquadro della mente, come creazione, risveglio, per poi domandarsi “pazzi chi?”. Passi di danza contemporanea disegnano i labirinti fisici e psicologici della mente sulla musica dei versi di Alda.

D – Per lei cosa è la pazzia, la follia?
A.C. – La Pazzia è una condizione dell’anima, è vivere senza punteggiatura, è la comunicazione di un malessere che ha radici profonde, è saltare sul tappeto della ragione volteggiando in mille avvitamenti e rischiosi volteggi, come trapezisti  che al suono di un rullante si librano nell’aria, spinti dal desiderio di volare alto, di scorgere i segreti del cielo e trascinarli sulla terra. Senza rete. La Follia è dolore, ma è anche Poesia. E Alda ne è stata testimone vivente, lei, piccola ape furibonda, come amava definirsi, era solo malata d’amore e di vita, e per guarire ha cominciato a cantare, divorando la poesia, mordendo a sangue le parole, trasformando la reclusione, l’esclusione e l’umiliazione in una resurrezione del corpo e dell’anima.

D – Ma la follia, in noi, alberga da qualche parte?
A.C. – Dove abita la follia?  In fondo, non così lontano. Di sicuro in ognuno di noi è presente come lo è la ragione; la scienza l’ha tradotta poi in malattia con la presunzione di guarirla: il pazzo diventa malato, cavia di laboratorio, oggetto di sperimentazioni terapeutiche affinché in lui prevalga la razionalità,  che rende normali e uguali gli uomini tutti. Chi è diverso, è matto; chi ascolta quelle voci che parlano dentro, è matto; chi prova a guardare la realtà da un’altra angolazione e a leggerla con le proprie lenti d’ingrandimento, è matto; chi esprime nel quotidiano la fragilità e la fatica di esistere, di affrontare e resistere alle bufere della vita, è un diverso, è, quindi, un matto; chi si accorge dell’immenso vuoto d’amore  che imprigiona  le anime degli uomini e che non permette loro di entrare a pieno titolo nella società che spesso non li vuole nemmeno, è matto. O è un poeta. Come Alda, la pazza della porta accanto, capace di fare la guerra con l’amore e il dolore, poi tornare a casa e rinascere fra sospiri diversi.

D – La pazzia, la follia, sono associati inevitabilmente ai manicomi, agli ospedali psichiatrici, dove vengono trattate come forme patologiche incurabili…
A.C. – Il manicomio è l’immagine della nostra povertà, della nostra tragica barbarie. E’ il fallimento della ragione. Alda come Rosa, Cloe, La Zeta, Titano, Aldo, Pierre e mille altri senza nome, personaggi di un dramma collettivo che ha lasciato in quelle corsie corpi tumefatti, polsi lividi, disperazione  lacerante; che ha fatto diventare il disagio pazzia, ha svuotato la mente con le scariche elettriche, così senza pensiero l’altro non esiste e non fa paura a nessuno. Ma qualcuno è sopravvissuto.  Grazie alla poesia: farmaco e veleno, inferno e paradiso, dono e furto, grido e silenzio. La poesia è un paio di scarpette rosse. Spesso si balla sulle braci. Sul fuoco. E’ così. E’ una condanna… scrive Alda.  Ma è anche privilegio, missione, destino, solitudine feconda che genera pace, slancio vitale, coerenza, armonia. E questa, in fondo, non è felicità?
I versi sono polvere chiusa /di un mio tormento d’amore, /ma fuori l’aria è corretta, mutevole e dolce ed il sole /ti parla di care promesse /così quando scrivo/ chino il capo nella mia polvere/ e anelo il vento, il sole… perché salvare un petalo d’amore è come salvare un respiro.

Per un “non artista”, e razionale all’inverosimile, come il sottoscritto, a questo punto, mi sembra di impazzire ma prima di diventare pazzo, forse, è il caso di andare a vedere “Dove abita la follia?” per poi ritornare sul tema, spero, con le idee più chiare.(CFN)